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martedì 29 marzo 2022

Laila Cresta, romanzo: E DI LA', IL PARADISO, di Laila Cresta


Beau Rogers, fotografo, e Betta Acquarone, giornalista, devono occuparsi di un caso particolare: un cadavere senza testa che viene trovato in una discarica abusiva. E per Betta ritorna l’incubo del tentativo di stupro che ha subito qualche anno prima.

Un’esperienza terribile e violenta come quella passata da Betta può condizionare qualsiasi ragazza, tanto che lei non riconosce neppure con sé stessa di poter essere attratta da un uomo: persino quando si tratta di un uomo giovane, bello e innamorato, come Beau Rogers, il fotografo britannico (ma di nonna genovese) della rivista per cui entrambi lavorano. Finché, i due, insieme, devono occuparsi di un caso particolare: un cadavere senza testa che viene trovato in una discarica abusiva. Nella storia, entrano anche la ragazzina afgana di cui il morto era innamorato, e una specie di bruto gentile: quello che ha salvato Betta, quattro anni prima. E quando i complessi della ragazza sembrano finalmente superati, la terribile esperienza che ha subito si ripropone di nuovo, complice anche una collega, infatuata del bel fotoreporter. Solo l’intervento di Rogers e del fratello di Betta riesce a impedire che il tentativo di stupro vada a buon fine, ma lei sembra non riuscire a superare il trauma, questa volta. 

Finché, una visita ai parenti di Beau sui bricchi di Genova, sembra davvero possa allontanarli l’uno dall’altra, anche grazie a una graziosissima cugina di Beau che rimane folgorata da lui.

 

 

giovedì 10 marzo 2022

Laila Cresta, romanzo: DANZA D'AMORE (DI SYLVIA) - Laila Cresta, e-book Delos Digital (col I capitolo)

Sylvia è una capinera: una ballerina, uno di quegli uccellini piccoli piccoli, dalla danza sincopata

Sylvia  è una ragazza: una ballerina, con la danza affascinante della fanciulla destinata a diventare una étoile.
Bloccata da una storia sbagliata, Sylvia ritrova sé stessa nell’amore per un grande artista, e nella danza che è la sua vita. 

Dopo essere riuscita, a malapena, a liberarsi di un manipolatore narcisista che rischia di distruggerla, Sylvia si dedica alla sua arte: la danza. Falcon, un grande artista (ballerino, coreografo, musicista) che ha una dozzina d’anni più di lei, si innamora di Sylvia, e la prende sotto le sue ali protettive. Cresciuto, coi genitori, in una Comune in Irlanda, Falcon è sempre vissuto per la danza: per lui, tante donne, ma è sempre solo sessualizzazione dell’amicizia, come da cultura hippie. E Sylvia non riesce a concepire la libertà sessuale degli hippie. Finché non capisce che da Falcon può accettarla, almeno finché lui è abbastanza preso di lei da non trattarla come una qualsiasi scopamica. Insieme, Falcon e Sylvia creano un balletto affascinante, tratto da una fiaba di Andersen: "I fiori della Piccola Ida". E la passione diventa amore.

Fortemente legata, nelle sue storie, dal proprio vissuto personale, Laila ha ambientato questa storia (oltre che al Bolshoi!) anche nella fattoria in cui sono nati e cresciuti il nonno e i suoi fratelli: la Torrevecchia, a San Michele di Alessandria, nel Monferrato.

Cap. I

Davanti alla finestra della grande cucina collettiva della Torrevecchia, quella che un tempo ospitava i lavoranti nella stagione del raccolto, c’era, e perfino toccava il davanzale, un grande ciliegio che aveva ancora sui rami qualche piccolo frutto, scuro e raggrinzito.  Era un albero possente e ricco di foglie, e secondo Sylvia non era un ciliegio proprio come gli altri: si trattava invece di un albero particolare, come di un’altra specie, un albero di ballerine, o di sylviae. Guardando bene tra i rami, infatti, si potevano scorgere minuscoli nidi ormai vuoti. Gli uccellini non erano ancora partiti, e formavano un piccolo stormo disordinato che si muoveva a zig-zag, sia che volasse sia che zampettasse sul terreno. 

Anche Sylvia era una ballerina: pareva che i suoi genitori l’avessero chiamata come l’uccellino proprio perché avevano sempre saputo che avrebbe danzato.

Ritirarsi per qualche giorno nella cascina in cui era cresciuto il nonno, per la ragazza era come proteggersi con le coperte sulla testa, come quand’era bambina, lasciandosi avvolgere dalla quiete di quel mondo dai ritmi antichi.

Prozii e cugini avevano sempre da fare, alla fattoria: naturalmente c’erano l’orto e i campi da curare, poi le mucche nella stalla, i bufali nel recinto al coperto, le anatre che sguazzavano nello stagno, i tacchini che passeggiavano tronfi col loro elegante ventaglio di coda, e la scrofa che grugniva nel suo stabbio affacciato sul dehors dei cuccioli! Così, per quanto tutti volessero bene a Sylvia, non avevano tempo per lei. Le sue estati, nella campagna riarsa, erano generalmente solitarie, ma in quella solitudine lei viveva una sua vita segreta, che si dipanava fra la sua mente e il suo cuore.

Fin da bambina, Sylvia, ospite della prozia, aveva persino dovuto usare un po’ d’immaginazione per arrangiarsi con la prima colazione e con la merenda, in una libertà totale. Se era la stagione giusta, faceva una scorpacciata di frutta (che mal di pancia aveva avuto, con le nocciole!), altrimenti nell’orto c’erano pomodori succosi, carote dolcissime, pisellini teneri, mentre, fra le balle di paglia e di fieno, si nascondevano le uova che galline petulanti deponevano a casaccio: dopo che la prozia le aveva insegnato a bucarle con un spillo, lei aveva imparato a berle anche da crude, quindi non aveva bisogno di nessuno che gliele preparasse. Le galline della Torrevecchia erano libere, e tanto selvatiche da non poterle catturare con facilità: per trovare le loro uova, nella cascina se ne lasciava sempre uno come richiamo, negli anfratti che quelle usavano abitualmente per deporle.

A Sylvia non erano mai state granché simpatiche, le galline! Erano animali prepotenti e aggressivi, e specialmente poi, se la prendevano sempre con quelle in difficoltà: la gallina sciancata dall’involontaria zampata di una mucca mentre dormiva nello strame, preferiva continuare a stare nella stalla, ed evidentemente si sentiva più al sicuro, nonostante tutto, che fra le sue sorelle. In un angolo, vicino alla porta che dava nella grande dispensa piena di salamini e di conserve, e di lì portava in cucina, c’era anche un refrigeratore/miscelatore, in cui il latte si rimescolava: era una golosità dal profumo dolce, ma bisognava bollirlo accuratamente prima di berlo, e quindi era fuori della sua portata.

La prozia Giulia impilava per lei un materasso arrotolato e un cuscino sul pavimento della cucina. Con quelli, nella calda estate monferrina, la bambina che lei era allora si preparava un giaciglio sul pavimento: Sylvia era sempre stata tanto accudita e coccolata a casa propria, che dover pensare al proprio letto e alla propria merenda, lungi dal farle pensare di essere trascurata, le pareva una cosa insolita e divertente. Per lei era sempre stato davvero un gioco cercarsi da mangiare nei dintorni di quella fattoria che le sembrava un Paese di Bengodi! Sylvia alla Torrevecchia poteva mangiare qualsiasi cosa: al massimo, ad esempio per i frutti selvatici, cercava qualcuno che le confermasse il loro essere mangiabili. Nessuno la controllava, ed era così che si spiegavano gli occasionali mal di pancia la cui genesi lei non dimenticava mai: così anche quello diventava un gioco, e un gioco istruttivo.

A casa sua, a Genova, a occuparsi dei bambini c’erano stati addirittura quattro adulti: i suoi nonni e i suoi genitori. Vicino a lei, c’era anche un fratellino che a volte poteva anche rugnare e rompere, ma che normalmente era il suo compagno di giochi: loro due si adoravano. Ai giardinetti e alla spiaggia poi, con lei c’era stata una bisnonna assolutamente unica: Sylvia era sempre divertita ma anche imbarazzata quando lei le cantava quell’istruttiva canzoncina parmigiana che dice: 

Oh che gûst che piacer che cuccagna

cheg… in campagna!

Chi chega in tel cumun

 nu purà mai saver…

Certo la parte piemontese della sua famiglia non avrebbe mai cantato niente di simile!

Giocando, a Sylvia piccina piaceva raccontarsi delle fiabe che s’inventava, e che lei viveva come in un suo teatro personale. Quando si metteva un grembiule della nonna come mantello, o in qualche modo simulava un vestito lungo, il nonno la chiamava madama ciauderna, o ciaudarnon, che chissà cosa voleva dire, e lei rideva, un po’imbarazzata. Il nonno c’era sempre, con lei alla Torrevecchia: lavorava nei campi attorno alla cascina, e questo bastava a farla sentire protetta. Prima ferroviere (e poi manovale in fabbrica, sotto la dittatura), ma nato contadino, il nonno diceva: "Il lavoro della campagna è il più bello e il più duro che c’è".

Per Sylvia, il nonno era stato un grande amore.

 

 

 

 

 

sabato 5 febbraio 2022

Laila Cresta, romanzo: DONNE CON LE GONNE LUNGHE- storie di donne tra l'800 e il '900



 Una saga famigliare, da metà ‘800 a metà ‘900, che si svolge tra Salsomaggiore (PR) e Sestri Levante (GE). E' la storia di Zia Irene, che non ebbe figli, ma fu una super mamma per le sue nipoti, per i loro figli e persino per i figli dei figli. In quasi 100 anni di vita, vide due guerre mondiali  e vent'anni di dittatura. I suoi nipoti furono tutti partigiani, a parte quello che cadde prigioniero degli Inglesi, in Africa. 
Zia Irene era profondamente offesa di non poter votare, anche se non le piacevano granché i socialisti di Turati: il romanzo è anche uno spaccato della storia del nostro Paese.
Zia Irene e le sue nipoti, Erminia, Zoella e Dirce (mia nonna): donne che leggono, e non sono mai andate a scuola; donne che amano profondamente, e sono profondamente oneste. A modo loro però, senza concessioni all’ipocrisia, in un mondo che sta cambiando. 

Laila Cresta- Donne con le gonne lunghe - Narrazioni 29 - ISBN 9788825419054  Delos Digital - Anche in cartaceo per la Delos.


DONNE CON LE GONNE LUNGHE

Recensione della Dott. sa Giuseppina Lucia Capodici

linguista

Quando ho letto il titolo non immaginavo che si parlasse di donne che hanno fatto parte della vita dell'autrice, ma l'ho capito subito dalla prefazione, dove si nominava  Bruna, una donna che ho conosciuto anch'io e che ho potuto amare e apprezzare anch'io.

Normalmente alla fine di un romanzo si legge che la storia è del tutto inventata, che i personaggi, i loro nomi e cognomi e i fatti e le situazioni non hanno riscontro nella realtà, invece  qui ho trovato persone, nomi e situazioni reali, come reale è la loro storia .

E' innanzitutto la storia delle donne di una famiglia, storia che si svolge tra la fine del secolo XIX e il XX con un'apertura verso il XXI secolo, perché questo romanzo non ha una fine classica. Ma questo “perché” lo dovrà scoprire il lettore.

Le donne con le gonne lunghe sono zia Irene e le sue nipoti: Erminia, Zoella e Dirce, ma ci sono anche donne con gonne meno lunghe, come Bruna, ma con lo stesso carattere forte, volitivo e contemporaneamente dolcissimo. Donne che hanno amato e che sono state amate, molto amate, donne che avevano un meraviglioso e modernissimo senso della libertà delle donne, dei loro diritti, del rispetto dei loro sentimenti.  E tutto nonostante due guerre mondiali, un ventennio di dittatura e dei principi radicati nella società che non erano per niente favorevoli alle donne.

La storia  comincia con zia Irene che non vuole figli perché ha visto troppe donne giovani morire di parto, ed è felicissima quando sa che il marito è sterile, eppure per tutta la sua vita farà da madre ai suoi nipoti  e sarà una  madre affettuosa e sempre presente. Il marito, lo zio Eligio, l'affiancherà sempre, ma nello stesso tempo resta sempre un po' dietro le quinte. Del resto, questa è una storia di donne !

Le nipoti attraverseranno anche momenti tragici, ma l'aiuto onnipresente di zia Irene le accompagnerà sempre.

Zia Irene è stata anche presente nella vita dei pronipoti e delle pronipoti, e così la troveremo anche accanto alla figlia di Dirce, la cara Bruna, e non solo, ma eccola ancora ai giardinetti con la figlioletta di Bruna, che la considererà sempre come una presenza importante nella propria vita.

Gli uomini della famiglia ruotano intorno alle nostre donne, sia quelle con le gonne lunghe che quelle con le gonne un po' più corte, ma un uomo, marito, papà in particolare entra da assoluto protagonista nella saga familiare: Ettore, il marito di Bruna. Ettore che ha partecipato, come Bruna, alla Resistenza, perché i principi di libertà e di democrazia sono forti nei nostri personaggi: in tutti, sia vecchi che giovani, sia uomini che donne.

E' una storia che potrebbe essere la mia e di molte altre persone che, leggendo questo romanzo, possono ritrovare anche la propria famiglia, così come è successo a me. Sicuramente molti crederanno, leggendo, di essere anche loro protagonisti e condivideranno storie e sentimenti, cambiando i nomi con quelli dei propri nonni, o genitori, o zii o cugini. Sarà difficile uscire da questo romanzo, perché  ci troveremo dentro anche noi e ce lo porteremo con noi.

Per l'autrice è un romanzo senza la parola fine e probabilmente lo sarà anche per noi.                               

Giuseppina Lucia Capodici


La Prefazione al romanzo, di Laila Cresta

Tanto per chiarire (Prefazione)


La Bruna, come dicevano a Sestri Levante, era la mia mamma. È un’espressione considerata infantile, ma, quando una mia compagna di scuola mi prese in giro perché dicevo la mia mamma e non mia madre, e dovevamo dare la maturità, le risposi che lei, poverina, aveva magari avuto una madre, ma che io avevo una mamma! Lei tacque, ma abbassò la testa: nel suo sguardo c’era l’invidia.

La Bruna era una donna intelligentissima, con un saldo e sicuro senso etico. Come tutte le donne di casa sua poi, era fatta per fare la mamma: anche, la mamma! Era una donna minuta, elegante, piena di grazia: mio padre ne era pazzo.

Durante la guerra, la Bruna aveva abitato a Fontanellato (Parma), dove la sua famiglia era sfollata: il suo Ettore andava a trovarla, da Sestri Levante, facendosi più di 150 km in bicicletta, e altrettanti per tornare. Era un coppiano!

Bruna amava molto Funtanlè, e la conosceva bene: su di essa conosceva tutte le storie che ne raccontavano gli abitanti. L’incipit del romanzo è appunto costruito su quello che la gente diceva, tra l’Ottocento e il Novecento, sulla bellissima Stufetta della rocca Sanvitale.

La Bruna aveva il dono di saper raccontare: subito dopo la guerra, aveva anche pubblicato qualche racconto su Noi Donne, la rivista dell’UDI, Unione Donne Italiane. Aveva fatto solo la V elementare: la VI classe era già stata tolta da Mussolini. Non vi fidate mai di chi semplifica i percorsi didattici! Non si fa neanche con gli handicappati (pardon, disabili, dice l’attuale politically correct conformism), ma questo sarebbe un altro discorso. Queste storie di famiglia me le raccontava lei, e a lei le avevano raccontate la sua mamma, nonna Dirce, e zia Irene. Spero di far parte di questa dinastia femminile, Irene, Dirce, Bruna, Laila, in modo non solo anagrafico e genetico: spero di saper raccontare, come loro.

In questa storia, c’è la fine dell’800,  con le prime luci elettriche e le prime auto, ma anche coi bambini che morivano di malnutrizione e di polio (niente vaccinazioni, in quegli anni), e ci sono anche le loro mamme, che le spazzava via la febbre puerperale o la tisi. C’è una famiglia di donne forti e libere, che sapevano amare. Ci sono i loro compagni, che si trovarono gettati nel triste orrore della I guerra mondiale. C’è il ‘900, coi suoi sogni di un mondo migliore, e con i suoi incubi di razzismo e di guerra. Ci sono i loro figli, vittime del fascismo e di un’altra guerra. Ci pensavo adesso: le mie nonne hanno visto partire per la guerra sia il marito che il figlio!

Soprattutto poi, c’è la Zia Irene.

L’appellativo Zia era come facesse parte del suo nome, e tutta Sestri Levante (in cui si era trasferita dalla natìa Fontanellato) la chiamava Zia. La Zia Irene è stata la matriarca della mia famiglia, la zia e vicemadre di nonna Dirce, e poi la nonna dei suoi figli e dei suoi nipoti, come me: le persone che hanno la fortuna di invecchiare sane di mente e di corpo, e hanno intelligenza e senso etico, diventano leggende familiari.

Zia Irene e le sue nipoti sono state donne un po’ particolari: nella seconda metà dell’Ottocento, sapevano leggere (e leggevano) senza mai essere andate a scuola; non accettarono mai, in nessun caso, l’immorale propaganda bellica; pensavano che non ci fosse niente di vergognoso nell’avere un bambino senza avere un marito (al massimo era da incoscienti, per le difficoltà che comportava essere l’unica persona al mondo a pensare a lui), ma che invece fosse inaccettabile abbandonarlo o trascurarlo.

L’800 della zia Irene non era quello ufficiale, era quello della gente che cominciava ad acquisire una coscienza sociale: suo marito votava per i Socialisti Unitari di Turati, lei naturalmente non votava ed era anche offesa da questa interdizione. Comunque, anche se aveva molta stima per la Kuliscioff, non avrebbe votato volentieri per Turati: era un un posapiano, secondo lei!

Le sue nipoti erano donne molto oneste, ma la loro onestà non era quella del perbenismo borghese: erano oneste nei rapporti umani. Furono donne che amarono molto, e furono molto amate.

Questo libro ovviamente è per zia Irene, per nonna Dirce, per mamma Bruna, e per tutte le meravigliose donne che hanno fatto la storia della mia famiglia, ma anche per tutte quelle che, con loro e come loro, hanno contribuito all’evoluzione morale e sociale di questo nostro Paese.

Ancora una cosa: dovreste vedere la faccia dei bambini, quando sentono la storia di Lo scemo e suo zio. Sono affascinati. Per loro, le parolacce sono liberatorie, e lo sono ancora di più se chi le pronuncia è la maestra! Pensate che nell’ultimo ciclo ho dovuto fare un patto coi bambini: quella storia una volta sola l’anno, ma tutti gli anni! Naturalmente, sono parolacce che riguardano solo i prodotti meno nobili del corpo umano, parole che non si possono dire, come se la mamma non fosse tutta contenta, quando il bambino la fa! Mi spiace solo che, come tutte le fiabe popolari, per gustarsela bisognerebbe sentirla raccontare, non leggerla!

Un appunto: nel romanzo, generalmente i nomi di persona sono autentici, ma i cognomi no, per questioni che riguardano (possiamo dire) la privacy dei miei cugini.

Comunque, quello che ho voluto fare è stato proprio fermare sulla carta questa leggenda: la leggenda di zia Irene.

Buona e, spero, piacevole lettura.      

Laila Cresta