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mercoledì 13 dicembre 2017

COL BUONSENSO DEI NONNI (e le conoscenze del XX secolo): come far crescere i bambini oggi


 In questo libro si parla della gestione della propria gravidanza, dell'allevamento e della cura dei bambini, e della loro educazione, soprattutto. Per i problemi "speciali", non per quelli giornalieri ovviamente, si rimanda sempre allo specialista giusto, cui nessuno si può sostituire. In modo particolare, nel libro mi sono occupata dell'allevamento del neonato e dell'educazione all'autonomia: i bambini dei "Nidi d'Infanzia" di trent'anni fa erano più autonomi di quelli che arrivano oggi alla scuola primaria. E si sentivano anche molto meno soli: altro che "blue whale".
Oggi si vedono troppi genitori sbalestrati dalla vita che devono fare, con orari di lavoro impossibili e disponibilità economiche limitate, con figli cui difetta sempre l'autonomia fisica, e non solo. Persino i nonni, dovendo ancora lavorare, hanno problemi ad adempiere a quella che è sempre stata la loro funzione: dare sicurezza a genitori e bambini. Così, ci sono mamme che non hanno paura a lasciar soli bambini di pochi mesi e li alimentano con cibi preconfezionati che sono costosi, poco salutari e poco appetibili; genitori che pensano a riprendere e a postare su youtube i loro bambini che piangono perché sono spaventati, prima ancora di andare a consolarli... Così, visto che nella mia vita ho potuto avere tutte le fortune che ogni mamma dovrebbe avere (da bambina una nonna in casa con me e una mamma e un papà presenti e responsabili, poi una buona preparazione specifica e un figlio meraviglioso) ho deciso di condividere con gli altri ciò che ho imparato e sperimentato. In questo libro si parla della gestione della propria gravidanza, dell'allevamento e della cura dei bambini, e della loro educazione, soprattutto. Per i problemi "speciali", non per quelli giornalieri ovviamente, si rimanda sempre allo specialista giusto, cui nessuno si può sostituire. In modo particolare, nel libro mi sono occupata dell'allevamento del neonato e dell'educazione all'autonomia: i bambini dei "Nidi d'Infanzia" di trent'anni fa erano più autonomi di quelli che arrivano oggi alla scuola primaria. E si sentivano anche molto meno soli: altro che "blue whale".
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 PRESENTAZIONE

Il primo manuale che ho scritto sulla cura dei bambini è stato” UNA CORSA A OSTACOLI, Disagio e inserimento nel mondo della scuola” (“il canneto editore”, Genova 2015). In quel libro ho raccontato, dei miei quasi quarant’anni a scuola, quelli nei “centri speciali”, e i casi di bambini handicappati incontrati nella scuola “normale”. Certamente, ogni bambino ha i propri problemi (sociali, familiari, di pura casualità, ecc.), solo che c’è qualcuno ne ha di più, e molto oggettivi e permanenti anche, come i cavallini delle steeple-chase inglesi che corrono con un handicap, cioè con un peso suppletivo. Per questo io non amo il sostantivo “disabile”, che non ha lo stesso chiaro significato che ha la parola “handicappato”: un cavallino potenzialmente come gli altri, ma con un peso in più.  Adesso, lasciato l’insegnamento con le sue emergenze, per me è arrivato il momento di parlare anche degli “altri”, i bambini potenzialmente sani. Un giorno mio padre, un po’ polemicamente, mi chiese se il bambino fosse il mio dio. L’ho raccontato altre volte perché, con gli anni, ho capito che qualcosa di plausibile c’era, nella sua idea… Per me, amare e curare i bambini è una cosa ovvia, ed è anche la più importante che ci sia. Sono cresciuta così, con una madre, tra l’altro, che sembrava nata per prendersi cura di tutti i bambini del mondo. Finché ho vissuto in famiglia, sul mio letto erano sedute le mie bambole, appoggiate sull’imbottitura che uno dei miei nonni aveva frapposto fra me e il muro. Solo i libri mi piacevano tanto quanto le bambole. Adoravo quelle che sembrano bambini. Da piccola, andando a passeggio con l’altro nonno, “mi perdevo” andando dietro alle signore con la carrozzella o col passeggino. Mi sembrava brutto far vedere che non capivo se il bimbo fosse un maschietto o una femminuccia e quindi la prima domanda era sempre: “Come si chiama?”. Poi chiedevo la sua età e qualsiasi cosa mi venisse in mente. All’asilo, proteggevo una bimba dagli occhi molto storti, più piccina di me, come se io fossi stata “grande”. A dieci anni, coccolavo e facevo giocare la mia piccola vicina di casa e, in campagna e al mare, le mie cuginette. Leggevo “Oliver Twist”, “Il lampionaio”, Il Piccolo Lord”, “Sara Grewe, reginella prigioniera”, “Gegi Magagna”, “Burchiello l’amico di Ciuffettino”, “Il diario di Gianburrasca” e persino “Incompreso”, piangendo come una fontana, ma erano libri che parlavano di bambini, e quindi mi sembravano belli. Solo “Incompreso” l’ho letto una volta sola: mi faceva torcere le viscere e mi sembrava davvero un emerito imbecille, quel padre cui il proprio bambino non piaceva perché non gli sembrava fosse come “doveva essere”. Di bambini in difficoltà ne avevo conosciuto a iosa fin da piccola: avevo un carissimo cugino down e avevo passato gli ultimi due anni delle elementari nella Scuola Speciale Logopatici, dove avevo avuto compagni balbuzienti, sordi, palatoschisi-labbro leporino, dislalici, paralalici…  Sì, quello che per me era chiaro già da bambina, era che era necessario cercare di intervenire “prima”, impedendo che un bambino potesse abbonarsi alla sofferenza. Ancora non sapevo che la sofferenza può essere (anzi è) un modus vivendi eliminabile solo in via provvisoria, ma pensavo comunque che bisognasse intervenire per eliminare i pericoli dell’ambiente, e insegnare al bambino ad affrontare quelli che non sono eliminabili… Così mi sono specializzata alla Scuola magistrale Ortofrenica che non esiste più, e, in quel contesto, ho studiato Puericultura e Auxologia, Psicologia dello Sviluppo, Neuropsichiatria Infantile, Psicopatologia, Pedagogia degli Anormali, Anatomia e Fisiologia del Sistema Nervoso, su testi e con insegnanti della facoltà di medicina. Con un corso del dott. Scardovelli, sono anche diventata musicoterapista in ambito didattico, poi con un corso ISSAE di didattica del francese ho imparato il metodo funzionale (per insegnare una lingua senza usarne altra) con l’Opera Montessori mi sono specializzata in didattica montessoriana, con l’Opera Nomadi ho imparato chi siano quelli che chiamiamo “zingari”.  E poi ho fatto la maestra. Per questo nel mio testo si parla di nutrizione e di svezzamento, di vestizione, di nanna, di scolarizzazione, di ritmica e filastrocche, di bullismo e persino di “blue whale”, e insomma, di tutto ciò che può interessare a chi deve aiutare a crescere un bambino. Come a tutti accade infatti, gli anni sono passati, inesorabili, e per me è diventato faticoso occuparmi dei bambini. Occuparmene però, non ha smesso di essere una delle cose per me più importanti, e l’età non mi ha fatto dimenticare le conoscenze, teoriche e pratiche, che ho accumulato. Ad esempio, so che per i bambini ci vuole un ambiente curato, cibo adatto, abiti igienici, e, prima ancora, una gravidanza che sia un buon incipit per la vita della nuova creatura. In poche parole, agli educatori, genitori e insegnanti, occorrono adeguate nozioni di puericultura (la scienza che si occupa della corretta crescita di un bimbo sano) e di auxologia, che invece si occupa del ragazzo e del suo evolversi fisico e psichico. “Ma una volta…”, sento dire. “Una volta” le donne morivano di parto troppo spesso (“Si chiama parto perché si può partire”, mi ha detto una signora mentre ero incinta di sette mesi) e la mortalità infantile era semplicemente mostruosa. Un anno di vita, poi tre anni, cinque, sette, undici o dodici, venti: erano tutte tappe pericolose, e ognuna di esse poteva segnare la fine della vita. Frequenti epidemie facevano strage: malattie esantematiche come il morbillo, la rosolia, la scarlattina, ecc.; e poi la pertosse, la difterite, la poliomielite, ma anche la scarsità di cibo e le infiammazioni intestinali dovute a cibo non adatto al livello di maturazione dell’apparato digerente del bambino, esigevano tributi tanto alti che, soprattutto fra l’Ottocento e il Novecento, nel ceto sociale della nuova borghesia impiegatizia e mercantile, diventò usuale mettere i bambini a balia: i genitori pensavano che essi difficilmente sarebbero riusciti a diventare grandi, e in questo modo essi avrebbero evitato di affezionarsi troppo a loro, e di soffrire troppo. Ci volle la Montessori per battersi contro il baliatico, che era in realtà una delle cause delle morti precoci: balie sottonutrite con troppi bambini che avrebbero dovuto attaccarsi a mammelle esauste… “Aiutami a fare da me”, scrisse la Montessori per far comprendere ai genitori l’importanza di una autonomia fisica precoce, che poi investirà tutti i campi dello sviluppo. Oggi però, genitori stressati e troppo soli non hanno sempre il tempo e la possibilità di occuparsi del bambino come dovrebbero: basta leggere le notizie di cronaca. Le mamme non hanno nemmeno più vicine le loro, di mamme, che sono costrette a lavorare fino a tarda età. E, a volte, coi bambini, basterebbe davvero solo un po’ di buonsenso, e il rendersi conto quali siano i bisogni infantili che vanno davvero soddisfatti al meglio, e quali siano invece bisogni indotti solo dalla pubblicità, e dalla superstizione.
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Allevare ed educare mio figlio è stata una grande avventura, e lo è stata anche lavorare coi bambini per quarant'anni. Era ciò che volevo fare nella vita, e per questo ho frequentato la Scuola Magistrale Ortofrenica. Lì, ho studiato: Puericultura e Auxologia, Psicologia dello Sviluppo, Pedagogia degli anormali, Psicopatologia,  Anatomia e Fisiologia del Sistema nervoso: una volta, era la preparazione richiesta agli insegnanti di sostegno.