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giovedì 29 dicembre 2011

VIVE LA FRANCE, ET VIVE LA JEUNESSE


Difficile dire cosa ha rappresentato la Francia per  la mia generazione, che pure era "beatlemaniaca". The Beatles, The Rolling Stones, The Rokes: musica amatissima, ma la lingua ci era ostica al punto di non renderci conto che anche cercare di capire le parole di "Imagine" era fare inglese. Col francese avevamo tutto un altro rapporto. Il francese era una lingua che cantava anche senza musica, tanto per cominciare. Era la lingua degli slogans che apparivano nei manifesti de "L'Académie des Beaux Arts". Era la lingua di Prévert e dei "trois allumettes", quelli famosi, accesi uno dopo l'altro. Era la lingua di Brassens e di "Margoton la jeune bergère". Era la lingua dei nostri primi sogni, la lingua del "Maggio" che per noi voleva soprattutto dire crescere, e affrancarci dall'autorità dei genitori. Insomma, sono una francesista come De André, probabilmente per lo stesso motivo per cui lo era lui, e forse lo sono anche come il Gino Paoli di "Parigi dalle gambe aperte": Parigi e il francese sono la mia giovinezza, e un sogno di libertà. E questo concetto è molto chiaro, in POVERA PICCOLA, romanzo di tre generazioni: quella del "Maggio", quella dei figli dei ragazzi di allora, e quella dei loro genitori, divisi fra scelte opposte, con Petein o coi maquis. Idealizzate, ognuna di loro, sì. Forse, il mio è un saluto affettuoso, e un andare oltre.

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