Sylvia è una capinera: una ballerina, uno di quegli uccellini piccoli piccoli, dalla danza sincopata.
Sylvia è una ragazza: una ballerina, con la danza affascinante della fanciulla destinata a diventare una étoile.
Bloccata da una storia sbagliata, Sylvia
ritrova sé stessa nell’amore per un grande artista, e nella danza che è la sua
vita. Dopo essere riuscita, a malapena, a
liberarsi di un manipolatore narcisista che rischia di distruggerla, Sylvia si
dedica alla sua arte: la danza. Falcon, un grande artista (ballerino,
coreografo, musicista) che ha una
dozzina d’anni più di lei, si innamora di Sylvia, e la prende sotto le sue ali protettive.
Cresciuto, coi genitori, in una Comune in Irlanda, Falcon è sempre vissuto per la
danza: per lui, tante donne, ma è sempre solo sessualizzazione dell’amicizia,
come da cultura hippie. E Sylvia non riesce a concepire la libertà sessuale
degli hippie. Finché non capisce che da Falcon può accettarla, almeno finché lui
è abbastanza preso di lei da non trattarla come una qualsiasi scopamica.
Insieme, Falcon e Sylvia creano un balletto affascinante, tratto da una fiaba
di Andersen: "I fiori della Piccola Ida". E la passione diventa amore.
Fortemente legata, nelle sue storie, dal proprio vissuto personale, Laila ha ambientato questa storia (oltre che al Bolshoi!) anche nella fattoria in cui sono nati e cresciuti il nonno e i suoi fratelli: la Torrevecchia, a San Michele di Alessandria, nel Monferrato.
Cap. I
Davanti alla finestra della grande cucina
collettiva della Torrevecchia, quella che un tempo ospitava i lavoranti nella
stagione del raccolto, c’era, e perfino toccava il davanzale, un grande
ciliegio che aveva ancora sui rami qualche piccolo frutto, scuro e
raggrinzito. Era un albero possente e
ricco di foglie, e secondo Sylvia non era un ciliegio proprio come gli altri:
si trattava invece di un albero particolare, come di un’altra specie, un albero
di ballerine, o di sylviae. Guardando bene tra i rami, infatti, si potevano
scorgere minuscoli nidi ormai vuoti. Gli uccellini non erano ancora partiti, e
formavano un piccolo stormo disordinato che si muoveva a zig-zag, sia che
volasse sia che zampettasse sul terreno.
Anche Sylvia era una ballerina: pareva che
i suoi genitori l’avessero chiamata come l’uccellino proprio perché avevano
sempre saputo che avrebbe danzato.
Ritirarsi per qualche giorno nella cascina
in cui era cresciuto il nonno, per la ragazza era come proteggersi con le
coperte sulla testa, come quand’era bambina, lasciandosi avvolgere dalla quiete
di quel mondo dai ritmi antichi.
Prozii e cugini avevano sempre da fare,
alla fattoria: naturalmente c’erano l’orto e i campi da curare, poi le mucche
nella stalla, i bufali nel recinto al coperto, le anatre che sguazzavano nello
stagno, i tacchini che passeggiavano tronfi col loro elegante ventaglio di
coda, e la scrofa che grugniva nel suo stabbio affacciato sul dehors dei
cuccioli! Così, per quanto tutti volessero bene a Sylvia, non avevano tempo per
lei. Le sue estati, nella campagna riarsa, erano generalmente solitarie, ma in
quella solitudine lei viveva una sua vita segreta, che si dipanava fra la sua
mente e il suo cuore.
Fin da bambina, Sylvia, ospite della
prozia, aveva persino dovuto usare un po’ d’immaginazione per arrangiarsi con
la prima colazione e con la merenda, in una libertà totale. Se era la stagione
giusta, faceva una scorpacciata di frutta (che mal di pancia aveva avuto, con
le nocciole!), altrimenti nell’orto c’erano pomodori succosi, carote
dolcissime, pisellini teneri, mentre, fra le balle di paglia e di fieno, si
nascondevano le uova che galline petulanti deponevano a casaccio: dopo che la
prozia le aveva insegnato a bucarle con un spillo, lei aveva imparato a berle
anche da crude, quindi non aveva bisogno di nessuno che gliele preparasse. Le
galline della Torrevecchia erano libere, e tanto selvatiche da non poterle
catturare con facilità: per trovare le loro uova, nella cascina se ne lasciava
sempre uno come richiamo, negli anfratti che quelle usavano abitualmente per
deporle.
A Sylvia non erano mai state granché
simpatiche, le galline! Erano animali prepotenti e aggressivi, e specialmente
poi, se la prendevano sempre con quelle in difficoltà: la gallina sciancata
dall’involontaria zampata di una mucca mentre dormiva nello strame, preferiva
continuare a stare nella stalla, ed evidentemente si sentiva più al sicuro,
nonostante tutto, che fra le sue sorelle. In un angolo, vicino alla porta che
dava nella grande dispensa piena di salamini e di conserve, e di lì portava in
cucina, c’era anche un refrigeratore/miscelatore, in cui il latte si
rimescolava: era una golosità dal profumo dolce, ma bisognava bollirlo
accuratamente prima di berlo, e quindi era fuori della sua portata.
La prozia Giulia impilava per lei un
materasso arrotolato e un cuscino sul pavimento della cucina. Con quelli, nella
calda estate monferrina, la bambina che lei era allora si preparava un
giaciglio sul pavimento: Sylvia era sempre stata tanto accudita e coccolata a
casa propria, che dover pensare al proprio letto e alla propria merenda, lungi
dal farle pensare di essere trascurata, le pareva una cosa insolita e
divertente. Per lei era sempre stato davvero un gioco cercarsi da mangiare nei
dintorni di quella fattoria che le sembrava un Paese di Bengodi! Sylvia alla
Torrevecchia poteva mangiare qualsiasi cosa: al massimo, ad esempio per i
frutti selvatici, cercava qualcuno che le confermasse il loro essere
mangiabili. Nessuno la controllava, ed era così che si spiegavano gli
occasionali mal di pancia la cui genesi lei non dimenticava mai: così anche
quello diventava un gioco, e un gioco istruttivo.
A casa sua, a Genova, a occuparsi dei
bambini c’erano stati addirittura quattro adulti: i suoi nonni e i suoi
genitori. Vicino a lei, c’era anche un fratellino che a volte poteva anche
rugnare e rompere, ma che normalmente era il suo compagno di giochi: loro due
si adoravano. Ai giardinetti e alla spiaggia poi, con lei c’era stata una
bisnonna assolutamente unica: Sylvia era sempre divertita ma anche imbarazzata
quando lei le cantava quell’istruttiva canzoncina parmigiana che dice:
Oh che gûst che piacer che cuccagna
cheg… in campagna!
Chi chega in tel cumun
nu
purà mai saver…
Certo la parte piemontese della sua
famiglia non avrebbe mai cantato niente di simile!
Giocando, a Sylvia piccina piaceva
raccontarsi delle fiabe che s’inventava, e che lei viveva come in un suo teatro
personale. Quando si metteva un grembiule della nonna come mantello, o in
qualche modo simulava un vestito lungo, il nonno la chiamava madama
ciauderna, o ciaudarnon, che chissà cosa voleva dire, e lei rideva, un
po’imbarazzata. Il nonno c’era sempre, con lei alla Torrevecchia: lavorava nei
campi attorno alla cascina, e questo bastava a farla sentire protetta. Prima
ferroviere (e poi manovale in fabbrica, sotto la dittatura), ma nato contadino,
il nonno diceva: "Il lavoro della campagna è il più bello e
il più duro che c’è".
Per Sylvia, il nonno era stato un grande
amore.